afNews 27 Luglio 2023 14:00

“Slocum”, ovvero dell’arte di fabbricare velieri in giardino per solcare i mari dell’Animazione e ritrovare infine la rotta di casa: intervista con J.-F. Laguionie alla vigilia del suo Settimo Viaggio (testo in italiano e francese)

Come già la nostra corrispondente da Annecy, Alice Buscaldi, ci aveva esaurientemente narrato, tra gli appuntamenti più attesi del Festival di Annecy rientrano senza tema di smentita i cosiddetti Work-In-Progress, ovvero gli aggiornamenti sui ‘lavori in corso’ relativi ai progetti più attesi nel panorama del cinema di animazione e tuttora in fase di lavorazione. Tra questi, il Gatto ha lottato con unghie e canini residui per potersi assicurare un posto alla Salle Pierre Lamy – sfidando arditamente due dei suoi nemici giurati, ansia e claustrofobia – in occasione del WIP dedicato a “Slocum”, l’ultimo lungometraggio scritto e diretto da uno dei suoi autori preferiti, Jean-François Laguionie.

Il film è una co-produzione franco-lussemburghese tra JPL FILM e MELUSINE PRODUCTIONS – per l’occasione rappresentate da Camille Raulo (Louise en Hiver, Heart of Gold) e Stéphan Roelants (The Summit of the Gods, Linda veut du poulet) – mentre le animazioni sono state affidate a Studio 352 (Wolfwalkers-Il popolo dei lupi, Ernest et Celestine)

L’artista per l’occasione ha confermato di non amare gli storyboard “perché limitano la creatività” costringendolo a lavorare in spazi ristretti, privilegiando invece l’impiego di grandi fogli bianchi su cui realizza in piccolo formato una previsualizzazione di tutto il film.  Su questa viene poi montata una base musicale composta in contemporanea.

“Slocum” (2023)

Testimone ed erede di un’epoca in cui l’animazione era ancora un’attività essenzialmente ‘manuale’, soggetta a ogni sorta di imprevisti talora disastrosi ma anche inaspettatamente salvifici, Laguionie ha da tempo perfezionato un proprio metodo per cui disegna ogni situazione significativa della sceneggiatura a piena pagina, prima di aggiungere la colonna sonora e le indicazioni di regia. Lui stesso lo definisce una sorta di ‘animatic sauvage’ proprio per l’autonomia e la spontaneità grafica e narrativa che gli concede in pre-produzione: solo dopo aver messo insieme questi materiali il progetto potrà essere presentato a potenziali partner e finanziatori.

Un sistema che richiede senza  dubbio tempo e attenzione, ma che gli permette di esplicitare con chiarezza da subito la struttura del film che, una volta approvato, non subirà più sostanziali interventi da parte degli investitori durante il processo creativo. Il vero e proprio storyboard verrà quindi realizzato meticolosamente in seguito, dai collaboratori più stretti che lo affiancheranno nella lavorazione.

L’obiettivo era di avvicinarsi, unendo tecniche e strumenti 2D e 3D il più possibile allo stile “matita su carta” di Laguionie – ha spiegato nell’occasione il primo assistente alla regia, Denis Lambert, precisando come i suoi layout sono stati realizzati attenendosi fedelmente a questo modello, e anche il processo di coloritura si è basato sulla tecnica a tempera detta gouache prediletta dal regista.

“Slocum” (2023)

Secondo Laguionie la musica è un elemento essenziale per accompagnare (e, non di rado, influenzare) la narrazione attraverso le immagini, e per “Slocum” è stata rinnovata la collaborazione col musicista Pascal Le Pennec, col quale aveva già realizzato i lungometraggi “La tela animata” (2011) e “Le stagioni di Louise (2016). Quest’ultimo ha anzitutto realizzato circa 45 minuti di musica orchestrata, con temi e variazioni, basandosi sulle sole indicazioni del regista, prima ancora che il film fosse ancora interamente stato abbozzato da Laguonie. Le fasi di composizione della colonna sonora e della sceneggiatura sono dunque avanzate in tandem, diversamente da ciò che avviene generalmente in un film di animazione.

“L’ile de Black Mor” (2003)

Come più volte paventato da un altro suo illustre collega nipponico, Hayao Miyazaki, di cui è recentissima l’uscita in sala dell’ultima creatura, anche Laguionie di recente ha lasciato intendere che questa potrebbe essere la sua ultima avventura di riservatissimo, quanto impavido, ‘marinaio dell’Animazione’: ma sarà vero?
Come canta Guccini in “Odysseus“: “… se tu guardi un monte che è di faccia / senti che ti sospinge un altro monte / un’isola col mare che l’abbraccia / ti chiama un’altra isola di fronte… ” – solo il tempo dirà se il settimo lungometraggio di Laguionie sarà stato davvero anche quello definitivo, come per le avventure di Sindbad.

Premiato nel 2019 con il Cristallo alla carriera ad Annecy, dove ha presentato il bellissimo, calviniano “Il viaggio del principe, seguito affatto autonomo del precedente “Scimmie come noi” (1999), da qualche tempo Laguionie sembrerbbe alle prese con una complessa operazione di (ri)esplorazione della Memoria, ‘bordesando e cabotando‘ (direbbero a Zena) tra malinconia e umorismo – e a gonfiare le vele la consueta vena poetica e immaginifica – tra le diverse correnti della propria vita. Dopo “Le stagioni di Louise”, in cui molti dei ricordi della protagonista, e soprattutto la loro materializzazione visiva, erano attinte a piene mani da quelle del regista, nell’ultimo progetto il coté autobiografico si fa esplicitamente dichiarato.

“Il viaggio del principe” (2019)

In “Slocum”, infatti, viene narrato un episodio realmente accaduto della sua infanzia nel secondo Dopoguerra, ambientato in un paesino ai bordi della Marna, dove suo padre (adottivo, ma il solo legittimamente tale per Laguionie) con la complicità della madre, si era realmente gettato nell’impresa  apparentemente assurda di costruire un veliero in giardino, Un’imbarcazione che, non per caso, si rifaceva al mitico “Spray“, lo sloop riadattato da Joshua Slocum per compiere, tra il 1895 e il 1898, la prima circumnavigazione del globo. E “Slocum’ è anche il soprannome che (nel film? nella realtà?) gli amici affibbiano, per deriderlo, al papà di François.

Quale fu il senso di questa ‘fitzcarraldesca’ impresa? Chissà. Forse solo di creare un’occasione, un’IDEA di viaggio, ponendo le prime fondamenta per il futuro immaginario del giovane J.-F., irrorato dalla sua già forte propensione per il disegno, dalla passione condivisa con i genitori per i romanzi e i film avventurosi, per il mare e per le imbarcazioni che lo solcavano ardite sfidandone gli umori a forza di vento, prima dell’avvento dei motori (allegoria anche questa dell’animazione prima del digitale? – azzarda il Gatto, ben conscio di banalizzare).

immagine tratta dal numero 7 (primavera/estate) della rivista “Blink Blank”.

Il personaggio principale nel film si chiama solo François, ma semplicemente – ha spiegato Laguionie in alcune interviste – per una forma di ‘civetteria’ personale, in quanto per il resto le sue esperienze sono le stesse vissute da lui nell’infanzia, forse soltanto “un tantino migliorate”. Il punto di vista è quello di un bambino alquanto peculiare, che parla pochissimo e fa fatica a capire i genitori, ma malgrado ciò – o proprio per questo – prova per loro rispetto e financo ammirazione. Dotato di fervida immaginazione e di una spiccata propensione al disegno, la sua fantasia spicca il volo dai bordi della Marna fino ai porti lontani da cui salperanno poi alcuni dei suoi indimenticabili personaggi: la coppia di coniugi che decide di sfidare i marosi (e il proprio amore) su una barchetta a remi e, soprattutto, il Ragazzo in cerca del tesoro custodito nell’”Isola di Black-Mor” (2003), ma ancor più di sé stesso e delle proprie origini, in quello che resta forse il film di Laguionie più classificabile in un preciso genere cinematografico.

“L’ile de Black Mor” (2003)

Chi scrive, ritiene che in “Slocum” si potranno ritrovare molti della sua generazione, il cui immaginario infantile era ancora un misto di stimoli multimediali – uno su tutti, il mitico “Corrierino” di José Pellegrini – ma cui bastava una riga di nuvole al tramonto per desiderare di partire… per dove? Chissà… “Lontano… ” – sussurrava Corto … e “lontano” lo era per davvero, non una foto a portata di clic, non un volo d’aereoplano, ma una suggestione della mente, attraente e al contempo spaventosa: un ‘cuore di tenebra’ dietro cui luccicavano Shangri-La, le Isole Vergini… o, semplicemente, il Mare.

Laguionie non nasconde che il linguaggio stesso dell’Animazione gli risulta più ‘pudico’ di quella del cinema dal vero, che pure ha praticato ma che oggi considera troppo esplicito e diretto. Per lo stesso motivo non si è preoccupato di definire dei personaggi troppo aderenti agli originali, e nemmeno ai luoghi. Ad esempio, la casa dove François vive coi genitori è diversa da quella della sua infanzia, poiché il senso era di affrancarsi dai dettagli per consacrarsi al racconto. – “Il fulcro era la storia dei miei genitori.”. La memoria l’aveva in parte dissipata, occorreva ricostruirla poco a poco. Disegnare è stato per Laguionie il modo preferenziale di tornare a interrogare i propri ricordi: man mano che li tratteggiava, gli tornavano alla mente episodi e avvenimenti sepolti nel tempo, contribuendo a far luce sull’esistenza stessa dei genitori e aiutandolo a comprenderla sotto una diversa prospettiva.

“Slocum” (2023)

Anche il personaggio di François scoprirà poco a poco la paura del padre nei confronti del mare, e questo malgrado egli perseveri nella costruzione della barca in giardino: un’attività che continuerà per altri cinque anni, e che per il giovane protagonista rappresenterà una sorta di ‘edificazione personale’. Sarà anche la causa di una prima, dolorosa perdita dell’innocenza: l’entusiasmo infantile per la prospettiva del viaggio, sempre rimandato,  lascerà infine posto al disincanto, alla presa di coscienza che i genitori non avevano mai avuto davvero intenzione di salpare… tutto uno stupido scherzo, una delle solite crudeli burle dei ‘grandi’, degli ‘olimpi’, verso i ‘piccoli’?
Eppure… eppure.
Leggendo le memorie di Laguionie, si apprende che da quella bizzarra e derisa iniziativa nacquero comunque relazioni impreviste con altri aspiranti ‘navigatori da giardino’, tra cui un’improbabile associazione curata dalla madre i cui membri si scambiavano per posta consigli e idee, sogni e aspirazioni catalizzate in quei cantieri navali casalinghi, destinati in partenza a non vedere mai il mare aperto, se non attraverso la fantasia condivisa. Se costruisci – è la regola – qualcuno verrà, sempre.

immagine tratta dal numero 7 (primavera/estate) della rivista “Blink Blank”.

La vita è sempre una questione di punti di vista, e qui non a caso la storia viene raccontata dalla prospettiva di François, anche con l’utilizzo di una voce fuori campo, forse per rimarcare come può cambiare l’opinione di un essere umano nell’arco di un’esistenza e in base alle proprie personali esperienze. Lo stesso Laguionie forse attenderà la fine della produzione per completare in modo definitivo la sceneggiatura e il testo del ‘voice off’, proprio per lasciare che sia tutto questo flusso di emozioni a suggerirgli l’approdo… pardòn, il finale migliore.

Mi fido poco dei miei ricordi” – ammette il regista, e insieme alla co-sceneggiatrice Anik Le Ray ha prima di tutto eseguito un importante lavoro di ricerca e documentazione, analizzando tra l’altro le fotografie d’epoca di Henri Cartier-Bresson e Robert Doisneau, fondamentali per ricreare un certo contesto sociale e fisiognomico da cui il regista è partito per realizzare scenografie e personaggi. Laguionie non è sicuro che il film rispecchi il suo stile pittorico, almeno non quanto “Louise”: si considera un cineasta più che un artista grafico, e si affida – a suo dire – ad ‘artisti autentici’ del settore per concretizzare caratteri e sfondi per l’animazione: in questo caso, le scenografie sono state realizzate in Lussemburgo nello studio di Stèphan Roelants. Per lo stile grafico delle sequenze oniriche in cui si rievoca l’impresa oceanica del vero Slocum l’ispirazione sembra rimandare esplicitamente ai grandi narratori visivi dell’epoca della vela, tra cui Fitz Henri Lane e Winslow Homer.

La trama del film si snoda appunto su due viaggi: quello del vero Slocum intorno al mondo e quello, immobile, della famiglia di François nel giardino di casa. Una nave che, come suggerito, forse fin dall’inizio non doveva servire per salpare, quanto per accogliere: una sorta di arca in cui il piccolo (Jean)Francois sviluppò, senza saperlo, la propria unicità. Un film che costituisce – ancora una volta, ‘forse’ – a distanza d’anni, un personale, intimo, ringraziamento a due persone altrettanto speciali: suo padre e sua madre.

immagine tratta dal numero 7 (primavera/estate) della rivista “Blink Blank”.

L’uscita prevista del film è prevista per la fine del 2023, ma non si escludono ulteriori slittamenti.

In attesa di poterlo vedere, una sorta di sceneggiatura romanzata è già disponibile (in francese), insieme allo script del bellissimo e pluripremiato corto “La traversée de l’Atlantique à la rame” (1979), edito in Francia da Maurice Nadeau (a proposito, il Gatto consiglia vivamente gli altri racconti e romanzi di Laguionie pubblicati in Francia da Delatour e Folies d’encre).

Qui di seguito, una piccola quanto densa intervista in lingua originale – su AfNews siamo fieri di essere plurilingue e multiculturali -che J.-F. Laguionie ci ha concesso a distanza (il Gatto come sempre si scusa con tutti per il suo francese maldestro… scusa anche tu, Mémé!).

GZ: Plusieurs de vos films ont pour décor/co-protagoniste la mer, lieu aussi réel que métaphysique: d’aventure, de rêve, de désir mais aussi de confrontation parfois inquiétante avec soi-même. Selon vous, l’Animation peut-elle être considérée comme un océan traversé par des routes toujours aussi fascinantes que risquées?

JFL: Je n’avais pas fait ce rapprochement. La mer est en effet un mouvement qui m’habite davantage en faisant un film que dans l’écriture d’un texte ou dans la peinture. Elle n’est jamais confortable, toujours onirique… et si proche de la musique…

“La Traversée de l’Atlantique à la rame” (1978)

GZ: Fondamental dans vos courts métrages, à commencer par “La demoiselle et le violoncelliste” (1965), l’apport de la musique est un élément essentiel dans vos films, parfois même plus ‘révélateur’ que les dialogues eux-mêmes : quelques réflexions sur ce thème.

JFL: Dans mon dernier film, “Slocum“, j’ai même renoué avec le premier, en écrivant le film sur la musique de Pascal Le Pennec auquel je n’avais donné que quelques indications météorolo-dramatiques ou sentimentales… Si la musique ne souligne pas l’image (ce qu’elle ne devrait jamais faire!) elle l’accompagne en profondeur, comme la couleur… La plupart du temps, cela m’évite d’utiliser les dialogues sur un plan narratif… Le travail en commun avec le musicien comme avec le décorateur sont pour moi parmi les meilleurs souvenirs de la réalisation d’un film…

“Gwen et le livre de sable” (1985, materiali di lavorazione)

GZ: Vous êtes également l’auteur de plusieurs nouvelles et d’un roman, explorant lesquels on retrouve des traces plus ou moins évidentes de vos films. Le plus récent est un livre qui, en plus de ce qui est pratiquement le scénario de « La traversée de l’Océan à la rame», présente le ‘roman’ (ou bien le longue conte), de «Slocum» : qu’est-ce que représente ce type d’écriture pour Vous: la version littéraire a-t-elle sa propre valeur indépendante, ou la considérez-vous parallèle et complémentaire au travail cinématographique?

JFL: J’ai du mal à vous répondre. J’ai toujours fait précéder le film par l’écriture d’une nouvelle ou d’un conte. Ce travail m’importait énormément et je les mettais en parallèle… Mais peu à peu, devant les temps de production d’un long-métrage animé, j’ai dû me consacrer davantage à l’écrit…

GZ: Depuis les débuts, on pourrait dire que parmi vos ‘boussoles de voyage’ il y  a été le roman “Le baron perché” d’Italo Calvino, et en effet, dans tous vos personnages, il est possible de trouver des signes de cette obstination fière, de ce désir d’échapper aux contraintes de la réalité et aussi de cette conscience mélancolique de la perte inhérente à un choix aussi radical qui font la personnalité de Cosimo Piovasco de Rondò, Seigneur d’Ombrosa. Pouvez-vous confirmer cette interprétation ?

JFL: J’ai rencontré Italo Calvino en 1970 pour le projet d’une adaptation du “Baron Perché”, et cette rencontre m’a beaucoup marqué. Je ne me rends pas compte de son influence dans certains de mes films, sinon en effet, cette “conscience mélancolique” dont vous parlez (et que je retiens)… lorsqu’on fait des choix conscients ou inconscients, heureux ou malheureux, pour s’évader de la pesanteur?…

“Le stagioni di Louise” (2016)

GZ: Déjà dans “Louise en hiver” le côté autobiographique était important même si ‘interprété’ indirectement, mais dans “Slocum” il devient explicite et direct, s’entrelaçant avec l’aventure du premier tour du monde à la voile. Une petite histoire de famille, parfois trés intime, qui va prendre à sa manière des connotations épiques – et qui m’a rappelé le roman “Shoeless Joe” de William P. Kinsella (d’où le film “Field of Dreams”). Une pincée de saine folie semble ici être le bon moyen de ne pas succomber aux difficultés de l’existence, ainsi qu’un moyen de consolider des liens et d’en tisser de nouveaux.

JFL: Je n’avais jamais pensé me servir de mon enfance, assez heureuse en fin de compte, avant de m’apercevoir que le voyage illusoire de mon père avait sans doute décidé de beaucoup de choses dans ma vie. Ce bateau ‘dans le jardin’ avait une histoire à me raconter, et peut-être raconter à beaucoup d’entre nous. Un voyage entre quatre murs qui pouvait être le seul et véritable voyage… Dès lors, tout prenait un sens, l’arche nécessaire à la famille, le développement de l’imaginaire chez le gamin, etc… jusqu’à l’émancipation nécessaire. Je dois avouer que mon plaisir était aussi de suivre ce vieux Joshua Slocum autour du monde…

“Gwen et le livre de sable” (1985)

GZ: “Gwen” c’est probablement Votre long métrage le plus énigmatique et le plus fascinant, une œuvre qui devrait être vue dans les salles et discutée longuement en raison de la quantité de sous-textes et de significations. Il représente également le passage de la synthèse du court à un récit plus étendu qui, à mon avis, a peut-être trouvé plus tard son achèvement le plus réussi dans “Le Voyage du Prince”. Quelques réflexions sur ce point.

Encore une histoire qui a compté dans ma vie… La Fabrique est née de ce film et du malentendu qu’il représentait. Passer du film de court-métrage au long métrage demandait peut-être de s’y prendre autrement, à une époque où le public ne connaissait que les films pour enfant. Une ingénuité qui m’a mis sur la touche pendant une dizaine d’années mais qui nous a permis de créer un studio. Ce fut le début pour moi d’un travail en équipe, plus riche en tous points que ce que j’avais vécu. Plus fraternel aussi… La synthèse entre le court métrage essentiellement artistique, et le long-métrage plus attentif au public, s’est faite plus tard et progressivement… pour arriver à “Louise en hiver” Il y a des tas de raisons à celà. L’évolution du public (encore modeste) et de la technique, les conditions de production ou de co-production, tout cela demande une écriture difficile à trouver pour des auteurs!…

GZ: Depuis Votre installation en Bretagne, Vous semblez avoir trouvé un nouvel élan de réalisation dans le contexte productif local: quelques mots sur cette réalité.

JFL: Nous installer en Bretagne, pour Anik et moi, a favorisé sans doute cette évolution. Nous avons retrouvé de petites équipes, avec JPL Films à Rennes ou le studio de Stéphan Roelants à Luxembourg… et la proximité de la mer!

Un disegno di Michel Ocelot durante uno dei suoi soggiorni artistici alla Fabrique.

GZ: Avant de la Renaissance du milieu des années 1990, le contexte français a connu plusieurs difficultés de production, malgré le talent reconnu des ses auteurs (qui récoltaient des prix mais peu de financements), et souvent – comme en Italie – les opportunités naissaient de l’initiative de mécènes qui risquaient tout seul pour aider plus ou moins jeunes talents à faire leurs propres films. Vous aussi avez hébergé et produit Michel Ocelot pendant ses tournages: serait-ce une erreur de prétendre que, compte tenu des difficultés, l’échange et la solidarité entre artistes étaient plus solides qu’aujourd’hui? Je Vous pose aussi une curiosité: la caméra utilisée pour “Les Trois Inventeurs” était la même que celle que Vous avez utilisée pour “La demoiselle” ?

JFL: En retrait désormais de l’actualité du film d’animation, j’ai du mal à vous dire si “c’était mieux avant” comme on le dit souvent quand on a mon âge. Le numérique m’a été reommandé pour des raisons de co-production. J’y ai trouvé des facilités de réalisation, en exigeant que les rôles des auteurs, du décorateur et du musicien ne soient en aucun cas affectés… C’est le cas depuis quelques années grâce aux artistes du ‘compositing’. Cela ne m’empêchait pas de regretter l’ambiance d’un studio comme le nôtre, lorsque nous pouvions accueillir et produire des artistes du court-métrage…
(Je crois en effet que la caméra de Paul Grimault qui a servi à réaliser “Gwen et le Livre de sable” sur multiplane a permis également à Michel Ocelot de tourner “Les trois inventeurs”…)

GZ: En lisant les récits de ces aventures productives, dans lesquels l’imagination créatrice souvent se combinait avec intuitions géniales et talent artisanal, obtenant des résultats qui ont ajouté de la vie et de l’authenticité aux œuvres, ma réflexion spontanée cèst que la “révolution” numérique aie vraiment soustrait quelque chose à l’animation, sauf dans les cas où c’est l’auteur lui-même qui fait l’intermédiaire en optimisant les ressources et en transmettant son ‘savoir-faire’ à une génération qui peut être risque de confondre l’art avec la technique. A propos: pensez-Vous, dans le contexte actuel, qu’une expérience comme La Fabrique serait encore réalisable?

“Le stagioni di Louise” (2016)

JFL: La transmission s’est faite, je crois, dans les nombreuses écoles d’animation, tout au moins en France, où le film d’auteur artisanal est encore pratiqué. Aussi, je crois qu’une expérience de réalisation collégiale comme La Fabrique est encore possible. Ce n’est pas une question de “savoir faire”, mais la volonté de considérer encore l’animation comme un art et non comme un produit…

GZ: Il y a déjà deux ans, Giannalberto Bendazzi nous a quittè. Vous l’aveiz effectivement définis comme l”Umberto Eco de l’Animation’. Je pense que avec ça on aurait dèjà tout dit, mais si souhaitez ajouter quelques mots à la mémoire de Giannalberto et de son héritage, merci du fond du cœur.

JFL: Giannalberto Bendazzi était pour moi un modèle de culture, dans l’animation. Il n’avait aucun mal, en effet, pour discerner ce qui relève de l’âme d’un film à un artifice quelconque. Il pensait que cet art n’en était qu’à son adolescence, et qu’il nous réservait bien des surprises. C’était un ami et je lui suis très redevable.

Giannalberto Bendazzi e J.-F. Laguionie insieme in occasione del Kecskemét Animation Film Festival (KAFF) – foto archivio Bendazzi, 1999)

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