afNews 15 Agosto 2023 14:30

Annecy 2023. I cortometraggi in concorso, recensioni e curiosità. Terza parte.

Continua il riassunto dei cortometraggi in concorso durante Annecy 2023.

I cortometraggi di cui si è discusso durante la colazione di giovedì 15 giugno nell’affollato bar El Pueblo erano quelli del terzo gruppo di corti in concorso.

Il primo cortometraggio è stato Our Uniform, realizzato da Yegane Moghaddam combinando disegni animati e fotografie di vestiti per lIran.

Il cortometraggio è autobiografico e parla del rapporto che una ragazza che vive in Iran può avere con il velo e l’obbligo di indossarlo. L’artista racconta i suoi ricordi di studentessa in una scuola elementare esclusivamente femminile e quanto, anche lì, la legge di coprire i capelli fosse fatta osservare tanto scrupolosamente da diventare ossessione.

Un racconto di una relazione tormentata per un obbligo che non sembra avere nessun motivo pratico e veniva vissuto come un incomprensibile imposizione fastidiosa, sia da lei che dalla maggior parte delle compagne di scuola. A questi ricordi contrasta la passione per i viaggi che l’autrice ha da adulta e la possibilità di vestirsi come le pare quando è all’estero.

La prima, ovvia, domanda è stato come sia riuscita a fare questo cortometraggio in Iran. È riuscita mettendoci un forte elemento comico. Lei ha deciso di fare questo corto perché tutti parlano delle donne, ma nessuno parla delle bambine e cosa accade loro.

All’inizio doveva essere un documentario animato più serio. Poi ha deciso di cambiare il tono e essere più istintiva, mettendo insieme sia vicende personali che altre che le avevano raccontato. Il corto sembra essere animato dipingendo su vestiti fatti di stoffe di vario tipo. In realtà l’animazione è stata fatta dipingendo al computer sulle foto. Ha impiegato due mesi per fare la preproduzione e tre per produrlo.

Nonostante venga mandato nei festival del mondo in Iran questo cortometraggio non verrà proiettato in pubblico. Lei lo ha mostrato solo a alcune amiche e amici e loro hanno fatto dei commenti non molto positivi, perché non pensano sia giusto criticare quelle leggi e considerano parlare di trucco e capelli una linea da non sorpassare. In questo periodo in Iran sta prendendo piede una mentalità più conservatrice e questo mette in guardia le persone. Tanto che alcune di quelle che hanno collaborato al corto hanno chiesto di non venire citate nei titoli di coda, per evitare ogni tipo possibile di problema.

Chi scrive lo ha trovato un cortometraggio coraggioso; che mostra l’assurda normalità di portare avanti leggi non amate da chi deve seguirle, usando uno stile artistico che riesce comunque a essere fresco e pieno di vitalità pur rappresentando l’opposto. Sapere che l’autrice venga criticata anche dai propri amici, che accettano quelle leggi come naturali, è profondamente disturbante.

 

Il secondo cortometraggio è stato “Maurice’s bar” realizzato a disegni animati da Tom Prezman e Tzor Edery per Israele.

La storia racconta del Bar del titolo, che nel primo decennio del novecento fu il secondo locale di Parigi a diventare punto di ritrovo della comunità queer, offrendo anche spettacoli, di varietà o artistici, di artisti travestiti, gay e lesbiche. Maurice era il proprietario, un ebreo algerino dal passato misterioso e profondamente disprezzato dalla polizia.

Il corto mostra quanto il bar fosse un’isola felice per i suoi frequentatori e come questo sia stato chiuso, a seguito di una violenta irruzione della polizia e il proprietario arrestato. Tutto è visto con gli occhi di uno dei frequentatori che, durante la seconda guerra mondiale, ormai anziano ricorda i fatti pensando a Maurice. Che era stato arrestato e deportato dai tedeschi in un campo di concentramento e probabilmente era già morto.

Questo è il secondo cortometraggio del duo e nasce dalle ricerche sui personaggi queer nord africani del passato che avevano fatto per il primo. Scoprirono l’esistenza di Maurice grazie a un libro con una ricerca fantastica su di lui. Quando il covid iniziò, loro si trovarono bloccati in casa e decisero di fare questo progetto per passione. Iniziarono a fare ricerche sul locale e si resero conto che, per essere il più autentici possibile, avrebbero dovuto fare il corto in francese. Per le voci hanno potuto contare su una collaboratrice che ha fatto un casting perfetto, cercando doppiatori che fossero queer e delle etnie che dovevano avere i frequentatori del bar. Perché dalle loro parole potessero sentirsi le loro esperienze reali.

La ricerca per lo stile da usare è stata lunga. Doveva essere qualcosa che si adattasse a quel periodo storico e per arrivarci hanno studiato l’arte dell’epoca e la musica, ricostruendo l’ambiente grazie all’unica foto del bar esistente. Hanno anche studiato come fossero gli altri locali del periodo, come il vicino Moulin Rouge.

Nel cortometraggio Maurice ha molti tatuaggi, in particolari di volpi. La cosa è voluta perché la volpe simboleggia Algeri e indica il fatto che, dopo essere stato costretto a chiudere il bar, Maurice continuò il lavoro di famiglia aprendo un negozio di pellicce.

Per chiudere l’intervista gli autori hanno raccontato che avevano iniziato il corto perché volevano raccontare la storia di un personaggio importante della comunità queer che era stato dimenticato. Adesso, purtroppo, il corto è tornato a essere rilevante per il ritorno dell’ostilità verso la comunità in tutto il mondo.

Chi scrive pensa che sia un cortometraggio dallo stile artistico potente e dalla storia intensa. Tragico e importante, che mostrare come il potere non ama mai chi vuole esprimere se stessu.

Terzo cortometraggio di cui si è parlato è stato “Intersextion” di Richard Reeves per il Canada.

Si tratta di un cortometraggio dipinto su pellicola, anche la colonna sonora è stata dipinta su pellicola e mostra immagini astratte dipinte sulla fantasia della musica dipinta come colonna sonora. Una serie di immagini e suoni affascinanti e meravigliosi. Giri di puntini luminosi tra colori accesi con un senso del dinamico che solo la pittura su pellicola può dare.

Con quasi ottanta cortometraggi realizzati nella sua carriera l’autore non è certo qui per la prima volta. Spiega che il corto è sull’elettricità che le persone generano incontrandosi. Un argomento che, come ricercatore, gli interessa molto.

Gli viene chiesto di spiegare la sua tecnica, che è dipingere sulla pellicola sia la scena che la colonna sonora. I suoi film vengano definiti “Musica visiva” e lo sono. Lui tenta di immaginare le immagini dei suoni e per il sonoro fa lo studio in digitale, così che non debba rifare tutto se non funziona il dipinto. Questo gli permette maggiore libertà nel fare sperimentazioni con i suoni.

Racconta che lavorare con pellicola è sempre più complicato. Sta diventando difficile da trovare e i tempi di sviluppo sono diventai sempre più lunghi. Anche per questo lui e gli altri che lavorano direttamente sulle pellicole si tengono in contatto. Naturalmente in questo modo di fare film c’è l’ombra di Norman McLaren e dell’alfabeto sonoro che ci ha lasciato per creare suoni. Gli viene chiesto se il film sia autoprodotto per scelta o per necessita. La risposta è semplice, non trova produttori, così si autoproduce.

Grazie al suo lavoro di preproduzione il suono viene deciso e realizzato prima, quindi sa dove sarà quando dipinge il fotogramma. Ma nonostante questo, ammette che non ha idea di come il film sarà davvero fino a quando non lo ha sviluppato e visto.

Chi scrive lo ha trovato un cortometraggio magico che va oltre l’ordinario portando verso l’incanto della sperimentazione artistica pura.

Quarto cortometraggio di cui si è parlato è stato “Electra”. Realizzato da Daria Kashcheeva per la Repubblica Ceca mischiando Stop Motion di pupazzi di dimensioni umane e pixillation di attori.

Il corto è il tormentato ricordo di una donna adulta legato alla festa di compleanno fatta da bambina per celebrare i suoi dieci anni. In quell’occasione la madre la truccò come se fosse un’adulta, ricevendo le critiche delle madri delle bambine invitate. Ma dietro ai motivi per quel trucco si nascondeva un segreto. Un segreto traumatico legato al fatto che, dopo quella festa, lei non ha più rivisto il padre. La protagonista tenta di affrontare il trauma rivivendolo ripetutamente. Ogni volta il ricordo si trasforma diventando sempre meno felice, sempre più distorto, oscuro e aggiungendo pezzi per permetterle di ricordare cosa sia successo davvero e cosa sua madre coprì con quel trucco vistoso.

L’autrice è stata a Annecy già nel 2019 con il suo film di diploma, anche quello era la storia di un trauma familiare. Dopo aver fatto quello è subito partita nel realizzare questo secondo corto chiamando degli attori per fare della pixillation. Prima di realizzarlo si è interrogata su come lavorare sui dei corpi potesse essere usato per parlare della sessualizzazione del corpo e sul femminismo.

Osserva che nella nostra società quasi ogni secondo un matrimonio giunge al divorzio e si chiedeva come poter mostrare il modo in cui le relazioni influenzino l’immagine di se e la sessualità.

Il complesso di Elettra è uno dei temi popolari nei film occidentali, lei lo ha analizzato impiegando la tecnica psicologica della terapia di gruppo e dello psicodramma inventato da Carl Gustav Jung.

La figlia non ha il padre ed è succube di una sua idealizzazione e della ricerca di lui negli altri. Alla fine la protagonista si rende conto che a lei manca il padre, ma ne ricorda anche i lati negativi e capisce la madre.

Durante la lavorazione del film ha curato molto la sua struttura, che definisce come un mosaico.

Per realizzarlo si è consultata con degli psicologi e ha fatto terapia di gruppo per capire come funzionava. Da questa ha studiato come funziona la memoria e come lo stesso ricordo venga visto negli anni o possa cambiare a seconda dell’umore e dell’esperienza che si sta vivendo.

Gli viene chiesto com’è proceduta la lavorazione e come sia stato lavorare in pixilation. Lei ha lavorato usando pupazzi in taglia umana (uno di questi era esposto nel padiglione della repubblica ceca al MIFA) e con un team di collaboratori. Non ha animato lei, ma aveva due animatori e la sua vecchia scuola gli ha permesso di usare i loro studi per tre mesi.

Per guidare gli animatori e essere sicura che sapessero cosa stessero facessero ha fatto un animatic perfetto. Interessante sapere che per non far muovere gli attori hanno dovuto trovare modi per imbragarli e sostenerli durante le pose e che quando gli attori tentavano di recitare tutto diventava troppo imprevedibile, così hanno dovuto farli smettere.

Chi scrive lo ha trovato un cortometraggio labirintico e ipnotico, che trascina gli spettatori in un vortice dove tutto si ripete decomponendosi arrivando al sofferto nocciolo del problema. Sentendo la stessa tristezza che la protagonista ha quando il ricordo delle maltrattamenti paterni torna e spiega tutto, cambiando del tutto l’impressione iniziale che si era avuto dei personaggi.

Il quinto cortometraggio di cui si è discusso è stato “Box cutters” realizzato animando la sabbia da Naomi Classien van Niekerk per il Sud Africa.

Questo cortometraggio illustra una poesia della poetessa Ronelda Kamfer (che lo recita) e racconta di un fatto avvenuto quando lei era adolescente. Mentre stava andando a fare la spesa era passata per una strada deserta dove tre uomini l’aggredirono puntandole un coltello alla gola, per poi scappare quando videro comparire un’auto guidata da una donna che, vedendo la scena, a sua volta era scappata. La ragazza tornò a casa e raccontò sconvolta il fatto alla nonna; che, impassibile, gli disse di andare di nuovo a fare la spesa.

È la seconda volta che lei realizza un film tratto da una poesia di Ronelda Kamfer, ama il modo in cui questa sa descrivere la sua generazione con poche parole. Loro non si sono mai incontrate, ma lei ha visto il suo cortometraggio tratto dalla sua poesia “An ordinary blue monday” ed è la voce narrante di questo corto. È molto contenta di aver avuto lei a leggerlo perché questo rende la recitazione autentica. Lei vive in Sud Africa e ha realizzato il corto durante una residenza d’artista, animandolo con l’aiuto di alcuni giovani studenti.

La produzione ha richiesto otto mesi. Ha fatto uno storyboard dettagliato e un animatic accurato. Ma al momento di fare l’animazione con la sabbia ha improvvisato alcune cose, lei ama fare così. Le cose che le interessano sono mostrare la reazione dopo il trauma. Si chiede cosa farebbe lei se qualcuno con una ferita alla gola le chiedesse aiuto, dice che questa è più una domanda che un’accusa alla persona che era scappata.

Racconta che negli USA in alcuni stati il corto ha avuto una grande accoglienza ed è stato immediatamente compreso dal pubblico, in altri stati di meno.

Gli viene chiesto quale sia la cosa difficile nell’adattare un poema. Il testo è già forte e non è facile reggere il confronto e allungarla con immagini senza rovinarla. Chiude raccontando che è difficile che una donna del Sud Africa non abbia avuto esperienze simili, è tanto normale che sembra non valga la pena parlarne. Chi scrive lo ha trovato un corto artisticamente bello che con un tratto potente sa raccontare una scena di violenza quotidiana in una società ormai così asuefatta a cose simili da non stupirsene. Il corto riesce a accompagnare bene l’indignata protesta della poesia, che dice quanto questo essersi abituato sia mostruoso quanto l’atto in se.

Il sesto e ultimo cortometraggio discusso nella mattina fu “Regular Rabbit” cortometraggio a disegni animati realizzato da Eoin Duffy per l’Irlanda.

Il corto racconta la storia di un adorabile coniglietto che vive felice nel bosco. Ma la voce narrante assicura che la sua carineria è solo apparenza. L’animale in realtà è al centro di una travagliatissima storia d’inganni, tradimenti e calunnie che lo hanno reso dall’essere un coniglietto qualunque a essere un mostro di rabbia e risentimento. Capace di portare lo sterminio, provocando l’incendio che a bruciato il bosco, per vendicarsi di chi lo aveva rovinato. Tutto ciò viene raccontato con un tono altamente drammatico, l’apparizione di altri animaletti graziosi ma, si assicura, malvagi. L’uso di molti primi piani, musica incalzante e tante fiamme.

Due anni fa il suo film precedente era stato mandato nel programma “WTF” e adesso è nell’ufficiale. Per questo cortometraggio si è ispirato alle fake news e ai servizi dove un’immagine dice una cosa, la voce narrante l’esatto opposto e tu devi decidere quale sia la verità. Lui scrive molto e si occupa degli effetti visivi, mentre il coniglietto carino lo ha animato un suo amico, lui ha animato tutto il drammatico resto. Realizzando la storia di un coniglio che potrebbe o non potrebbe essere uno spietato assassino.

Nel corto ci sono molti movimenti camera, la cosa serve a mantenere l’interesse su un coniglio per otto minuti, ma era anche una scusa per imparare a usare i movimenti 3D di Blender. Gli viene chiesto cosa gli ha permesso di fare Blender. Il suo primo corto era tutta animazione, Blender lo usa da anni e voleva imparare a usarlo di più rendendo il corto più cinematografico e riprodurre anche quella sensazione da TG in cui le immagini non sono mai chiare e non si può dire se siano reali o no.

Tutti i suoi corti sono su animali. Questo perché sentì un consiglio che se si vuole fare un corto di successo deve essere sugli animali che fanno cose umane. Per lui gli animali sono come una tela bianca da cui partire per immaginare storie.

Chi scrive ha trovato questo corto esilarante nella sua assurda storia di un coniglio spinto a reagire con la massima violenza a causa della persecuzione immotivata di un altro animaletto. E come questo potrebbe essere tutto falso. Un ottimo corto sull’impossibilità di capire cosa sia la verità.

La colazione dei corti quella mattina finì così. Ma in realtà nel terzo programma c’era anche un altro corto; World to Roam”, un cortometraggio a disegni animati realizzato da Stephen Irwin per il Regno Unito che raccontava una stranissima storia su di una famiglia isolata a cui nasce un unico figlio, i genitori lo adorano, ma quando era ancora bambino lui parte in cerca di avventure lasciando i genitori da soli per anni a tormentarsi e diventare sempre più isolati prima del suo ritorno. Un cortometraggio strano, molto cupo e inquietante; anche se indubbiamente ben fatto e con un finale felice che lo rende differente dagli altri, ben più negativi, cortometraggi realizzati dall’autore. Sarebbe stato bello sentire l’autore parlarne.


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